Versione in italiano del contributo del blog “Anarchici pistoiesi” apparso sul numero 4 di “Avalanche”.
La leggenda della valle che non c’è
Non è semplice sintetizzare in un articolo la questione valsusina ed il ruolo che gli anarchici – alcuni – si sono “ritagliati” al suo interno, la faccenda è molto ampia ed articolata, ci limiteremo quindi a dare la nostra chiave di lettura su certe dinamiche che abbiamo potuto osservare in alcuni anni di permanenza nella famigerata “valle che resiste”. In primis necessita mettere in luce quello che è il modus operandi che i detentori della linea politica di movimento hanno impostato/imposto e che portano avanti, con buona pace degli anarchici/notav.
Partiamo dalla conclusione: in Val di Susa sussistono reali possibilità di rivolta, in essere o in potenza, che possano mirare all’abbattimento delle logiche di dominio quali le conosciamo e con le quali come anarchici confliggiamo quotidianamente? La risposta è no. In Val di Susa lo scenario è quello classico della lotta di cortile che si sostanzia su un territorio certo ampio ma che risente appunto di tutti i limiti dei movimenti «non nel mio giardino». Come abbiamo più volte avuto la possibilità di notare, il movimento valsusino nella sua grande maggioranza non è interessato alle lotte che si svolgono lontano dei suoi confini e se ne trattano lo fanno solo o per strumentalizzazione politica o per una questione di empatia superficiale e tutta “religiosa” che non è quindi interessata a rilevare similitudini e differenze dei conflitti in atto e di trarne un ragionamento generale di critica ed attacco al potere, che infatti non viene rifiutato né messo in discussione ma del quale si chiede sostanzialmente una gestione più “equa”.
Sul piano strettamente locale la cosa si fa ben evidente nei momenti di consultazioni elettorali, sia nazionali, ma in maggior misura – ovviamente – in quelle comunali, quando l’oligarchia di movimento, la stessa che si consulta e stabilisce le linee d’azione in riunioni ristrette prima delle farse decisionali dei cosiddetti “coordinamenti dei comitati” (1), momenti di riunione spacciati per assemblee decisionali orizzontali ma che hanno più il gusto di una comunicazione dei pochi ai molti sulle eventuali azioni da intraprendere, si affanna nella corsa a ricoprire incarichi istituzionali. Inizia così il grande valzer delle oscene alleanze, concupiscenze ed intrallazzi al fine dell’ottenimento del voto, con lo scopo di accrescere la propria popolarità personale e per cercare di conquistare il governo di alcuni comuni interessati dal passaggio dell’Alta Velocità o delle infrastrutture ad essa collegate, per avere la propria briciola di potere ed andarla a far pesare nei colloqui con i supposti nemici dell’organizzazione statale.
Si fa un grande ricorso alla delega, nella gestione ordinaria del movimento (appunto nei coordinamenti dei comitati, quando questi ultimi, ormai ridotti alla stregua di chimera valligiana, vengono rappresentati in tali riunioni da qualche individuo) che in quella straordinaria, come nel caso delle elezioni appunto, quando la possibilità di essere ai vertici amministrativi comunali è ambita, incoraggiata e sostenuta. Durante tali eventi, come anche in altri di maggiore partecipazione di individui che «vengono da fuori» – figure vissute come armi a doppio taglio, ambivalentemente attirate ma anche temute, forse per la libertà d’azione che potrebbero rivendicare e mettere in atto – viene ribadito con orgoglio un concetto fastidioso, quello secondo cui le cose in valle si fanno «a moda nostra», cioè con le nostre modalità, imposte dall’oligarchia e accettate con acquiescenza dalla massa, senza alcuna tolleranza o nel migliore dei casi considerazione di eventuali iniziative di gruppi o individui che escano dal recinto della supervisione valligiana. L’«a moda nostra» rappresenta a tutti gli effetti la linea di demarcazione tra ciò che è possibile o non possibile fare, il quando, il dove, il come e il chi, ed è la dimostrazione di un impianto verticistico ed autoritario che nella retorica movimentizia si dice di rifiutare e combattere ma che nella pratica trova perfetta attuazione.
Val di Susa, la retorica teatralizzante della lotta
Se c’è una cosa che in Val di Susa è stata creata con successo e che ad oggi continua a funzionare piuttosto bene è una retorica di movimento che si palesa in maniera chiara nel momento in cui decide di raccontarsi e di “vendere” il proprio prodotto fuori dai confini piemontesi; la parola “vendere” non è scelta a caso, infatti quello che si può notare passando del tempo in valle e partecipando agli appuntamenti di movimento, è come ogni singolo fatto venga trattato in maniera teatrale e volto a creare immaginario: dal semplice tempo passato davanti ad una rete che diventa una «grande giornata di lotta», ad un tentativo di alcuni di forzare un blocco di polizia in maniera risoluta che diventa un vile attacco violento da parte di quest’ultima nei confronti dei poveri manifestanti lì solo per rivendicare un proprio diritto; ci ritroviamo davanti ad una torsione dei fatti tutta volta a creare un immaginario resistenziale che possa avere appeal da un lato con le anime belle della “società civile”, quindi mai di attacco e sempre di resistenza ad una violenza subita, ma che strizzi anche l’occhio ai rivoltosi sparsi per l’Italia e li invogli a spostarsi in valle dimostrando come l’eroica resistenza valligiana non parli il linguaggio della mera testimonianza o del politicantismo, ma della lotta non mediata alla sopraffazione. Il tutto accettato ed in buona parte rilanciato anche dagli anarchici più addentro alle dinamiche di gestione del movimento.
Non si tratta però solo di una rappresentazione fiorita di quello che accade, ma piuttosto di una creazione di immaginario strumentale a cooptare manovalanza esterna alla valle utilizzando temi e parole d’ordine cari ad esempio all’anarchismo, mostrando una realtà di valle orizzontale, acefala e genericamente “libertaria” che nei fatti non corrisponde alla realtà ma che è utile a convogliare forze sul territorio, manovalanza “specializzata” che può risultare utile nei momenti di conflitto con la forza pubblica e che però come già detto va tenuta bene al guinzaglio, sia per non turbare troppo le popolazioni, sia per non rischiare di sbilanciare gli equilibri interni del movimento; in questo la logica della «grande famiglia» della quale parleremo più avanti si è dimostrata uno strumento perfetto. L’ipocrisia di movimento, l’autorappresentazione spettacolare, l’accettazione delle dinamiche comunicative del potere (mistificazione, ribaltamento di significato e linguaggio, manipolazione dei fatti, ecc…) sono sostanziali del modo di porsi del movimento No Tav, metodologia non condivisa forse dalla totalità dei “movimentisti” che comunque la accettano o come necessità, o per non rischiare di mettere in discussione le posizioni acquisite all’interno del movimento delle “mille anime” – e questo crediamo sia il caso di certi anarchici che fino ad oggi hanno fatto finta di non vedere o hanno minimizzato, o hanno giustificato adducendo ridicole motivazioni.
La creazione della grande famiglia
Il movimento No Tav è figlio anche della società mediaticamente sovraesposta, e come tale ha dovuto crearsi un’immagine sfaccettata quel tanto che basta da risultare appetibile sia ai fruitori dello spettacolo mediatico, sia a coloro che cercano un luogo dove la propria modalità di lotta sia accettata e condivisa. La retorica della grande famiglia in questo è stata lo strumento principe e forse ben studiato per riuscire a marginalizzare quegli elementi che potevano essere poco digeribili agli spettatori del teatro valsusino. Se la presenza di militanti di varia estrazione è stata accettata come necessità strumentale – e per rendersene conto basta parlarne con un qualsiasi “semplice” valligiano – è altresì necessario che le identità specifiche più scomode siano sottaciute o passate in secondo piano, in un’ottica edulcorata volta a presentare il movimento al di fuori degli scenari classici del conflitto. Il marchio è quello della grande famiglia No Tav, siamo tutti No Tav, ecc… In questo scenario la vicenda dei quattro anarchici (diventati poi sette) arrestati per un attacco al cantiere – che i portavoce di movimento, utilizzando le tecniche di cui sopra chiamano «passeggiata notturna» – è esplicativa (2). Il movimento ha sempre parlato dei «suoi ragazzi», dei quattro prigionieri No Tav, omettendo sempre di citarne l’appartenenza “ideologica”, così da rendere più digeribile al pubblico la loro posizione, difficilmente spendibile se identificati come anarchici notoriamente poco “appetibili” ai fruitori dei media di regime; e tutto con buona pace degli altri anarchisti che evidentemente hanno ritenuto utile non agitare troppo quella che un tempo era chiamata «la bandiera dell’ideale», per paura – forse – di perdere l’appoggio mediatico discendente dalle sacre insegne della bandiera trenocrociata.
La «grande famiglia» ha anche un’altra funzione, non è altro infatti che la traslazione del concetto di democrazia utilizzato dalle autorità classiche ma troppo compromesso per essere rivenduto all’interno di un movimento che si palleggia fra l’antipolitica di stampo grillino (3) o da indignados e il sentimento di rivolta di altre comparse sul palco.
La «grande famiglia» è il dogma davanti al quale tutti coloro che hanno deciso di farne parte alzano le mani; così come per la “società civile” l’accusa di antidemocraticità diventa una macchia da lavare dimostrando tutta la propria fedeltà ai dettami democratici, la stessa identica cosa succede all’interno del movimento valsusino dove però la parola democrazia è sostituita con medesimo significato dalle parole – spesso intercambiabili – «grande famiglia» o «movimento popolare», in nome delle quali ogni conflitto generato da questioni sostanziali è ridotto al silenzio. In questo il movimento valsusino è perfettamente reazionario, poiché ha deciso di utilizzare metodi e strutture di creazione del consenso e di gestione della realtà tradizionalmente plasmati ed utilizzati dal potere per annichilire il dissenso e la possibilità che al suo interno si creino reali momenti di conflitto.
In tutto ciò c’è quindi chi ha deciso di non mettere in discussione certe dinamiche e sostanzialmente di avocare all’oggetto collettivo la propria soggettività individuale. L’impianto generale del potere è replicato, ed è bastato solo lavorare un minimo sul linguaggio.
L’investitura popolare diventa così l’obiettivo che sostituisce nella forma ma non nella sostanza il concetto borghese di elezione democratica – cui comunque com’è stato già detto è ricorsa appena possibile – e poco cambia fra il «siamo democraticamente eletti» dei politici e «le popolazioni valligiane sono con noi» dei gestori di movimento; il consenso nudo e crudo è ciò che viene ricercato, nulla di più, ed in ciò il linguaggio grossolanamente popolar/sentimentale di alcuni epigoni del movimento (anche anarchici) la dice lunga sulla verosimiglianza di queste affermazioni.
La gestione del linguaggio e la manipolazione dei fatti sono poi evidenti nel modo in cui sono affrontate le questioni legate alla delazione (4). Il movimento No Tav ha in pratica deciso di non prendere posizione bollando come «lotta fra parrocchie» la vicenda, spostando l’attenzione ed il fulcro della faccenda non sulla questione di sostanza, la delazione e tutto ciò che ne consegue, ma sui contendenti specifici, svuotando di significato un atto gravissimo come la confidenza che viene ridotta a scaramuccia fra bande. Dopo circa un mese dai sabotaggi di Firenze e Bologna (5), l’appello del movimento, gridato forte ed in perfetto stile autoritario, volto ad arrestare anche ogni minimo spunto di pensiero critico individuale, è stato quello di far sì che lo spettacolo movimentizio continuasse, che si continuasse uniti nella lotta, a tutti i costi, e di farla finita una volta per tutte con quelle che sono state archiviate alla bell’e meglio come “polemiche”. In questo gli anarchici “famigli” hanno deciso in buona parte di non turbare gli equilibri all’interno del ventre caldo del movimento popolare, o ignorando la questione, o bollandola anch’essi – utilizzando un linguaggio al limite del pretesco – come “scaramuccia”, magari figlia del mezzo utilizzato (internet) e degli animi esasperati, oppure spostando l’attenzione sulla – a detta loro – vera questione, ovvero i passi indietro del movimento rispetto alla pratica del sabotaggio. Atteggiamenti questi del tutto in linea con la tendenza di parte dell’anarchismo italiano odierno che tende sempre più a minimizzare questioni di sostanza come la delazione, la presenza negli spazi di infami o infiltrati in nome di un «volemose bbene» figlio della convenienza politica, in una logica utilitaristica che dà sinceramente il voltastomaco. Continue reading Italia: La leggenda della valle che non c’è →