II
«Quando allarga la coda questo uccello,
bellissimo da vedere
con le penne che strascicano a terra,
sembra ancor più bello
ma si scopre il sedere»
Guillaume Apollinaire, Il pavone
Il secondo libro del Comitato Invisibile, come il primo, è stato pubblicato in Francia per conto della stessa casa editrice La fabrique il cui nome è un omaggio all’ideologia operaista. Il suo animatore è Eric Hazan, una sagoma di editore, nonché storico e filosofo. Oltre ad essere, naturalmente, un acerrimo nemico dell’ordine costituito, benché le sue Prime misure rivoluzionarie (titolo di un suo libro scritto assieme allo zombi di Kamo, si sussurra anch’egli riesumato sull’altopiano di Millevaches) non siano riuscite del tutto a far dimenticare le sue ultime misure controrivoluzionarie (la sua propaganda elettorale a favore del socialista François Hollande, ora primo ministro*). Come il precedente, anche Ai nostri amici fa parte della collana da battaglia delle edizioni La fabrique, la stessa che accoglie opere di Marx, Engels, Lenin, Mao, Blanqui, Gramsci, Robespierre, ben tre titoli di Tiqqun… Ma Hazan non ha occhi solo per nonni e nipotini del pensiero rivoluzionario autoritario: il suo catalogo dal 2010 può vantare anche Les mauvais jours finiront. 40 ans de combats pour la justice et les libertés, il cui titolo dal piccante sapore comunardo-situs serve a condire una pietanza sfornata da un autore insipido quale il Sindacato della magistratura. Beh? Che c’è di strano? Proprio niente, considerando che nel 2003 Hazan si era già distinto per la pubblicazione del diario del fondatore del Sindacato della Polizia Nazionale, venti anni trascorsi a fare questo «buon mestiere in cui si aiuta la gente e si protegge la società», mentre nel 2005 aveva editato il libro di un medico ausiliario della polizia desideroso di far sapere al pubblico quanto si prendano cura della salute degli arrestati nei commissariati.
Insomma, lo avrete capito, Eric Hazan è un rivoluzionario, colto e privo di pregiudizi.
Il retro copertina del nuovo libro del C. I., oltre ad elencare a chi si rivolge, si conclude con l’ormai immancabile affettazione di umiltà, un vero e proprio marchio di fabbrica di certi ambiti movimentizi. Questa nuova fatica editoriale viene leziosamente presentata dai suoi autori come un «modesto contributo all’intelligenza di questo tempo». Ora, già è seccante sentire un sapiente complimentarsi per la propria erudizione, o una musa vantare la propria bellezza, o un nerboruto rivendicare la propria forza. Ma la modestia? Sbandierare la propria modestia significa cadere in flagranza di ipocrisia, è urlare la propria vanità. Ma il C. I., come vedremo, è sommo maestro di contraddizioni.
Comincia con una ostentazione di umiltà nel farsi annunciare in pompa magna. Nella scheda promozionale del libro leggiamo infatti: «Nel 2007 pubblicammo L’insurrezione che viene. Un libro che oggi si è finito coll’associare al “caso Tarnac”, dimenticando che era già un successo in libreria… Perché non basta che sia incluso nella sua integralità in un fascicolo di indagine antiterroristica perché un libro si venda, occorre anche che le verità che articola tocchino i lettori per una certa giustezza. Ora bisogna pur ammettere che molte affermazioni del C. I. si sono viste confermate da allora, a partire dalla prima e più essenziale: il ritorno fragoroso del fatto insurrezionale. A partire dal 2008 non è trascorso un semestre senza che una rivolta di massa o un sollevamento abbiano portato alla destituzione del potere in carica… Se è stato il seguito degli eventi a conferire il suo carattere sovversivo a L’insurrezione che viene, è l’intensità del presente che fa di Ai nostri amici un testo eminentemente più scandaloso. Non ci si può accontentare di celebrare l’ondata insurrezionale che percorre attualmente il mondo, pur felicitandosi di averne avvertito la nascita prima degli altri… Ai nostri amici è così scritto al culmine di questo movimento generale, al culmine dell’esperienza. Le sue parole provengono dal cuore dei disordini e si rivolgono a tutti coloro che credono ancora sufficientemente nella vita per battersi. Ai nostri amici vuole essere un rapporto sullo stato del mondo e del movimento, uno scritto essenzialmente strategico e apertamente partigiano: la sua ambizione politica è smisurata: produrre una intelligenza condivisa dell’epoca, a scapito della estrema confusione del presente».
Il linguaggio della pubblicità conosce solo il superlativo assoluto. Le parole di questa presentazione suonano così poco modeste da risultare inappropriate se rivolte a potenziali amici, solitamente poco inclini a gradire una tale supponenza. Ma perfette qualora si intenda rivolgersi a potenziali clienti da attrarre con la promessa di emozioni forti. Non è forse vero che ogni nuovo prodotto immesso sul mercato viene presentato come se fosse un «capolavoro», una «esperienza da non perdere», una «sensazione unica»? Lo faceva notare nel 2006 anche un saggio sulla propaganda del quotidiano comparso in Francia per conto delle edizioni Raisons d’agir, in cui si denuncia che «Un altro sintomo dell’influenza pubblicitaria è l’inflazione dell’iperbole, in particolare nelle… recensioni di libri e film. (…) I giornalisti facilitano il lavoro ai creativi delle agenzie disseminando i loro articoli di formule entusiaste, ricche di aggettivi… La relazione incestuosa con la pubblicità contribuisce a fare [della lingua] uno strumento di emozione programmata, una lingua impulsiva così come si definisce “un acquisto impulsivo”». Curioso — ma non siamo affatto sorpresi — che l’autore di questo saggio intitolato LQR sia proprio monsieur Eric Hazan, il quale nelle vesti di saggista frusta quell’invasione della pubblicità nella lingua che nelle vesti di editore accoglie al fine di programmare i lettori all’acquisto impulsivo dei suoi prodotti.
Mettendo da parte la miseria dei trucchetti auto-promozionali, una presunzione simile ci fa venire in mente alcune considerazioni di un vecchio e noto anarchico italiano, il quale irrideva alla «dolce mania di tutti gli idolatri. Così i marxisti attribuiscono tutto a Marx, ed uno passa per marxista anche se dice che i padroni derubano gli operai (ah! dunque ammettete la teoria del plus-valore, vi gridano contro con accento di trionfo) o se afferma quella millenaria verità che per far valere la ragione ci vuole la forza. Se dite che il sole splende, i mazziniani diranno che lo disse Mazzini, e i marxisti risponderanno che lo disse Marx. Gli idolatri son fatti così». Anche il C. I. è fatto così, è un idolatra di se stesso. Ricorda solo i disordini scoppiati dopo che il suo libro è stato benedetto dalla Fnac o da Amazon — manco le insurrezioni e le sommosse esplose nel mondo a partire dal 2007 fossero merito suo, manco i rivoltosi di tutto il pianeta fossero insorti perché eccitati dalla lettura del suo testo. E quanto è accaduto, ad esempio, a Oaxaca o in Kurdistan nel 2006, in Francia o in Iran nel 2005, a Manipur o in Siria nel 2004, in Iraq e in Bolivia nel 2003, in Argentina nel 2002, in Algeria nel 2001, in Ecuador nel 2000, in Iran nel 1999, in Indonesia nel 1998, in Albania nel 1997… per non parlare delle continue rivolte che scuotono un paese impenetrabile all’informazione occidentale come la Cina?
Che i cialtroni del C. I. si rassegnino. Non hanno predetto nulla, non hanno scoperto ed annunciato alcuna novità. Le tempeste non scoppiano per confermare le parole del meteorologo. Le insurrezioni accompagnano e attraversano la storia e per esplodere non hanno bisogno di nessuno che le teorizzi. Né di rivoluzionari che ne discutano sulle loro pubblicazioni autonome, né di intellettuali che le trasformino in logo di successo sul mercato editoriale. Se poi costoro si vantano di essersi accorti del fatto insurrezionale prima di altri, allora c’è da chiedersi chi siano questi altri: i loro concorrenti nella scalata alle classifiche di vendita con titoli di critica politica? Quel Toni Negri che tanto li ossessiona nella competizione per l’egemonia teorica dell’estrema sinistra, o quello Stéphane Hessel che incita all’insurrezione civica delle coscienze, o quella Naomi Klein icona del movimento antiglobalizzazione, i cui libri hanno tutti venduto molto più del loro, evidentemente perché… hanno articolato verità ancora più giuste?
Comunque sia, ne conveniamo, il C. I. un primato l’ha ottenuto. Prima di tanti altri, ha mercificato l’insurrezione.
E poi, laddove non arriva l’iperbole pubblicitaria, interviene il coinvolgimento emotivo. Nella premessa del libro i rudi membri del C. I. avvincono i lettori con le loro confidenze, rendendoli partecipi della loro vita avventurosa: «A partire da L’insurrezione che viene siamo andati lì dove l’epoca si incendiava. Abbiamo letto, abbiamo lottato, abbiamo discusso con compagni di ogni paese e di ogni tendenza, insieme a loro ci siamo scontrati con gli ostacoli invisibili del tempo. Alcuni di noi sono morti, altri hanno conosciuto la prigione. Abbiamo perseverato. Non abbiamo rinunciato a costruire dei mondi né ad attaccare questo mondo».
Ecco che riaffiora quella sensazione di profondo imbarazzo, quasi di vergogna per qualcun altro.
La forza dell’anonimato sta nella sua capacità di sgravare il significato di una idea o di una azione dall’identità di chi la formula o la compie, restituendola così ad una piena disponibilità nella sua essenza universale. Ma che dire quando viene usato solo per prendersi la licenza di vantare o millantare chissà quali imprese? Su chi vuole fare colpo il C. I. quando — sicuro di non poter ricevere smentite — evoca la sua onnipresenza nei disordini, la morte e la galera subite dai suoi appartenenti, nonché la sua irriducibile tenacia? Una simile sbruffonaggine potrà forse impressionare i suoi clienti, ma incita ad un sarcasmo feroce tutti gli altri. Diamo pure per buono che la riscossione dei diritti d’autore gli abbia permesso di fare turismo insurrezionale, ovvero di fare a gara con pompieri, poliziotti e giornalisti nel precipitarsi ovunque ci fossero focolai di rivolta. Ma già dubitiamo che abbia discusso con compagni di tutte le tendenze (va bene, non siamo troppo pignoli: «e di quasi ogni tendenza», escludendo chi non lo adora). Infine, fra i suoi adepti, chi e come sarebbe morto? Non lo dice, così da far volare la fantasia. Sta forse parlando dei caduti sul campo nel corso delle insurrezioni? O più semplicemente dei dedicatari di questo nuovo libro? Forse che Billy e Guccio e Alexis facevano tutti parte del Comitato? E quale suo appartenente sarebbe finito in prigione? L’hacker Jeremy Hammond?
Ne dubitiamo fortemente, ma è del tutto inutile dilungarsi con simili interrogativi. Dopo essersi autoproclamato portavoce del «partito storico» dell’insurrezione, al C. I. non resta che passare in rassegna i propri possedimenti cooptando la rivolta altrui attraverso l’uso di quel plurale maiestatis che lo fa riflettere su «l’azione mondiale del nostro partito», o ricordare che «Il 5 maggio 2010 eravamo in 500.000 a marciare nel centro di Atene». Così come in passato gli intellettuali dell’I. S. si vantavano di esprimere la teoria rivoluzionaria, sostenendo con sprezzo del ridicolo che le loro idee erano «in tutte le teste — è ben noto», allo stesso modo gli intellettuali del C. I. si vantano nel presente di esprimere il fatto insurrezionale, sostenendo — con pari sprezzo del ridicolo e parassitando lo slogan di Anonymous — di essere legioni e di essere ovunque sulle barricate erette nel pianeta. È ben noto!
Eccolo qui l’ultimo pavone dello zoo dell’estrema sinistra, tutto intento ad aprire la coda dalle penne fosforescenti per mettersi in mostra davanti al suo pubblico.
Ai clienti
insurrezione e bispensiero
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*Nota di Contra Info: François Hollande è stato eletto Presidente della Repubblica